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Omicidio a Cosenza, la Cassazione: «Domenico Mignolo non uccise Antonio Taranto»

I giudici della quinta sezione penale hanno dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla procura generale di Catanzaro

Omicidio a Cosenza, la Cassazione: «Domenico Mignolo non uccise Antonio Taranto»

Il 3 luglio scorso la quinta sezione penale della Cassazione ha messo la parola fine sull’omicidio di Antonio Taranto, assassinato la notte del 30 marzo 2015, nel quartiere popolare di via Popilia a Cosenza. La sentenza emessa ha chiuso in maniera definitiva il discorso su Domenico Mignolo, condannato nei primi due giudizi per poi ottenere un annullamento con rinvio della Cassazione, confermato dalla Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro in nuova composizione con l’assoluzione certificata di recente dagli ermellini.

Nel secondo processo d’appello, il collegio giudicante aveva deciso di “aprire” l’istruttoria per due motivi: mettere a confronto le consulenze balistiche, una delle quali decisiva ai fini dell’assoluzione di Domenico Mignolo, e ascoltare i collaboratori di giustizia. Un passaggio importante ai fini della ricerca della verità processuale visto che si trattava di un giudizio abbreviato. Ebbene, la storia giudiziaria, compiuti questi due atti, ha preso una piega decisamente opposta rispetto al teorema accusatorio.

L’elemento decisivo è il contenuto presente nel documento firmato dal compianto Aldo Barbaro, il quale sosteneva che il proiettile che ferì mortalmente Antonio Taranto non partì dal balcone, dove si presume fosse Domenico Mignolo. La procura generale di Catanzaro, nel tentativo di rilanciare il castello accusatorio, aveva puntato sulle contraddizioni della consulenza Barbaro opposta a quella dell’ingegnere Mancino.

Secondo la Cassazione, i giudici Cosentino e Commodaro hanno dato «conto in maniera compiuta e plausibile delle ragioni per le quali Domenico Mignolo non era colui che aveva sparato i colpi, uno dei quali aveva attinto Antonio Taranto uccidendolo, i motivi di ricorso spiegati dal Procuratore Generale
ricorrente avverso l’assoluzione pronunciata nei confronti del predetto imputato denunciano vizi
che o sono manifestamente infondati o che fuoriescono dal sindacato consentito al giudice di legittimità».

Per la quinta sezione penale non si poteva mettere in dubbio neanche la genuinità dei racconti resi in aula dai collaboratore di giustizia Celestino Abbruzzese e Anna Palmieri, i due coniugi che nel 2018 hanno deciso di uscire dal mondo criminale, facendo parte un attimo prima del presunto clan degli Abbruzzese “Banana” di Cosenza.

Sul punto la Cassazione ha scritto che «la valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese da Abbruzzese e dalla Palmieri è stata compiuta indicando le ragioni per le quali le stesse sono state ritenute precise, lineari e coerenti, nonché scevre da contraddizioni e incongruenze. In particolare, è stato escluso che i coniugi avessero potuto concordare il contenuto delle loro propalazioni e sottolineato che le loro rivelazioni tardive, quanto all’identità dello sparatore, trovassero spiegazione nella loro decisione di «divulgare, a distanza di anni e “calmatesi le acque”, la verità» sull’omicidio di Antonio Taranto, essendo ormai venuto meno il pericolo, inizialmente temuto, di iniziative ritorsive da parte dei sodali di Antonio Taranto nei confronti di Mario Mignolo, che, a differenza del fratello Domenico, non era figura di spicco nell’ambiente criminale». Il ricorso della procura generale è stato dichiarato inammissibile. Domenico Mignolo è stato difeso dagli avvocati Filippo Cinnante e Andrea Sarro, mentre Leonardo Bevilacqua era assistito dalla penalista Rossana Cribari.

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