mercoledì,Luglio 3 2024

Cosenza, come Michele Rende venne a sapere dell’operazione Reset

L'inchiesta Recovery della Dda di Catanzaro rivela il coinvolgimento di Enrico Dattis. Il boss Patitucci è stato avvertito in tempo reale della chiusura dell'indagine sul suo clan

Cosenza, come Michele Rende venne a sapere dell’operazione Reset

Sono le parole di Michele Rende, uno dei presunti esponenti del gruppo Porcaro, costola della ’ndrangheta confederata di Cosenza, a mettere magistrati e investigatori sul chi vive. I discorsi dell’uomo, che avrebbe un ruolo nella vasta rete di narcotraffico illuminata dall’inchiesta Recovery della Dda di Catanzaro, evidenziano che nella squadra delle forze dell’ordine c’è una falla. Rende sa di essere tra gli obiettivi di una grossa indagine antimafia e mette sul piatto la questione in uno dei colloqui intercettati: l’informazione che ha ricevuto, spiega, «è attendibile perché me lo ha detto pure a me un amico che è dentro… nella Finanza». Quell’amico sarebbe Enrico Dattis, militare 42enne per il quale il gip distrettuale ha deciso la sospensione dai pubblici uffici per 12 mesi.

Le notizie veicolate si riferiscono all’inchiesta Reset: a Michele Rende viene rappresentato il contesto di un’inchiesta che indaga su un’associazione mafiosa strutturata come «una piramide» nella quale lui sarebbe collocato a un livello intermedio («dicono che mi portano medio… manco sotto», riferisce nell’intercettazione).

La soffiata

Il giorno in cui l’informativa della Guardia di finanza viene chiusa, le informazioni diventano ancora più specifiche. È il 19 ottobre 2020 e i militari della Gdf depositano in Procura, a Catanzaro, l’atto che riguarda 59 indagati per associazione mafiosa riferita al boss Francesco Patitucci. La sera del giorno prima, quando l’informativa era stata protocollata, Michele Rende si sarebbe affrettato a incontrare proprio il boss Patitucci. Per i magistrati antimafia «le modalità dell’appuntamento e dell’incontro (appartato, con telefoni lasciati in macchina) appaiono sintomatiche della necessità di affrontare un tema urgente e delicato, al riparo da ogni eventuale intercettazione».

Dopo quell’incontro – è la sintesi degli inquirenti – viene registrata una conversazione tra Patitucci e Antonio Illuminato, uno dei suoi uomini di fiducia: «Il boss, avvertendo l’urgenza di comunicare immediatamente il tema del colloquio anche ad altri sodali, provvedeva a contattare Illuminato, al quale, appunto, riferiva dell’avvenuto deposito dell’informativa di polizia giudiziaria corrispondente all’indagine seguita dalla Guardia di Finanza».

«Spiertu… spiertu»

Patitucci non indica la fonte in maniera esplicita, si limita a indicarla come «un parente nostro», e raccomanda al suo uomo di stare attento (“spiertu… spiertu”), perché ci sono attenzioni su di lui (“la polizia mi dà la caccia”) e che l’attività di polizia giudiziaria riguarda esattamente “sessanta persone”». Rende e Illuminato, qualche giorno dopo, tornano sul tema dell’associazione mafiosa: «Però loro dicono che hanno una piramide… e in questa piramide io non sono nemmeno terra terra! Sono a metà», dice il primo.

Cita anche un alto particolare: e cioè che l’indagine sarebbe una continuazione di “Testa del Serpente”, altra inchiesta sulla ’ndrangheta a Cosenza. Per i magistrati «si tratta di una specificazione che non può che provenire da chi ha conosciuto le attività di indagine».

Un amico speciale

È in questa conversazione che Rende offrirebbe «una vera e propria confessione» sull’identità della talpa. Avrebbe scoperto tutto attraverso un amico di suo suocero. Il suocero ha, infatti, la deviazione di chiamata proprio sul telefono di Rende ed è in contatto con una persona che da quella deviazione viene messa in imbarazzo e deve giustificare perché il suo cellulare entra in contatto con quello del «pregiudicato» (cioè lo stesso Rende). Una volta appreso questo dato, l’individuazione della presunta divisa infedele diventa facile: «È emerso – si legge nell’ordinanza – come Enrico Dattis sia in rapporti di amicizia e stabile frequentazione con il suocero di Rende e con un’altra persona con la quale, nei periodi in cui trascorre le ferie a Cosenza, si vede e si frequenta giornalmente, trascorrendo molte ore insieme e colloquiando confidenzialmente anche su questioni lavorative che coinvolgono lo stesso Dattis e la Guardia di Finanza».

Dattis lavora allo Scico e «viene agevolmente a conoscenza di atti di indagine assolutamente riservati». Peraltro, essendo originario di Cosenza, «è perfettamente al corrente» dei rapporti di parentela tra il suo amico e Michele Rende.

Qualche mese dopo, nel marzo 2021, avviene una conversazione tra suocero e moglie di Rende che gli investigatori decidono di evidenziare. Padre e figlia «fanno esplicito riferimento a un’imminente operazione di polizia che vedrà presumibilmente coinvolto Michele Rende». La donna «appare molto preoccupata per le sorti del compagno ma si dimostra già preparata ad eventuali perquisizioni da parte delle forze dell’ordine in quanto comunica al padre che “non c’ho niente a casa”».

Il padre «invita la figlia a rimuovere i “lingotti d’oro” e a contattare preventivamente un avvocato. La donna, all’inizio della conversazione, verosimilmente in cerca di ulteriori notizie sull’imminente operazione di polizia, chiede al padre se Enrico Dattis sia rientrato a Cosenza e lui risponde che Enrico attualmente si trova a Cosenza, precisando però che sta lavorando a Brescia per un’indagine delicata e adesso è sceso perché in ferie».

Dalla presunta fonte non arrivano altre notizie nell’immediato. «Non ha detto niente», dice al suocero di Rende un amico in comune con il finanziere. Qualche tempo dopo, però, Dattis conferma i timori della famiglia e manda un suggerimento a Rende: quello di «allontanarsi da certi contesti, di non continuare a fare ancora “imbrogli” con Patitucci, di non frequentare pregiudicati perché anche la sola frequentazione poteva essere motivo di contestazione nella prospettiva associativa mafiosa».

Il trojan nel cellulare

C’è un altro episodio in cui emergerebbe il ruolo di Dattis come informatore del clan. Quando la polizia giudiziaria effettua l’inoculazione di un trojan nel cellulare di Luigi Ricca, indagato nell’inchiesta Recovery, quest’ultimo viene «informato e reso edotto proprio da Enrico Dattis della inoculazione del virus sul telefono e della possibile attività di intercettazione nei suoi confronti; per come desumibile dai plurimi dialoghi sul tema e dall’invito a “non parlare” rivolto al proprio interlocutore da Dattis, che evidentemente temeva di essere intercettato». Altro elemento che sovrappone, secondo la Dda di Catanzaro, l’identikit del finanziere a quello della talpa a disposizione del clan.

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